Il magistrato
Ricordo
di Alessandro Galante Garrone, in Alessio Alvazzi Del Frate, Veij such dël Piemont. Poesie in dialetto piemontese, Torino, Forma, 1983, pp. 5-7.
Nel 1915 Alessio Alvazzi Del Frate aveva cominciato come uditore la sua carriera giudiziaria nel severo palazzo dei via Corte d’Appello di Torino, la Curia Maxima. Poco meno di vent'anni dopo sarebbe toccato a me, impacciato uditore, di varcare la soglia di quel palazzo. E la buona sorte volle che, per un primo dirozzamento, io fossi affidato dal presidente del tribunale al giudice Alvazzi, che aveva da poco passato i quarant'anni. Da lui imparai a meditare e a scrivere le prime sentenze civili[1].
È passato mezzo secolo da quel nostro primo incontro, nell'autunno del 1933: un incontro decisivo, per la mia formazione di giudice. Fui subito colpito dal meraviglioso scrupolo con cui studiava ogni causa - grande o piccola che fosse - dallo splendore delle sue sentenze. Qualche vecchio avvocato certamente ancora ricorda quel suo scrivere elegante, saporoso, quell'incontenibile scintillio di arguzia che prorompeva dal suo stile così lontano dal solito gergo forense, quell’adorabile chiarezza e semplicità. (Molti anni più tardi mi sarei imbattuto in un detto di Salvemini: «La chiarezza ‘e l’integrità morale della mente »). Fu, per me, una lezione non più dimenticata, della quale vorrei non essere stato del tutto indegno, nella mia lunga fatica di estensore di sentenze, e poi di scrittore (e insegnante) di cose storiche.
Dopo quei nove mesi di uditorato passati al suo fianco, altri preziosi incontri ed esperienze concorsero a fare di me un magistrato: l’assiduo contatto con eccellenti avvocati di Mondovì, Cuneo, Torino, l’affettuosa amicizia con giudici di me più anziani, come Domenico Riccardo Peretti Griva, Umberto Balestreri (grande alpinista tragicamente morto in montagna, compagno di ardite ascensioni con Alvazzi), Giuseppe Manfredini, tanti altri. Ma fu lui prima e più di tutti, che nel guidare i primi passi del novizio intimidito lo avviò per una strada non facile, da lui intrapresa molti anni prima con una serietà quasi religiosa, temperata da una delicata bontà d’animo e quasi per pudore nascosta da un velo d’ironia. Di questo suo essermi stato maestro, egli più tardi mi parlava con affettuoso compiacimento.
Caro Alvazzi, come ricordo il tuo affetto di fratello maggiore, e quasi di giovane padre, quando mi portavi con i tuoi figlioli - allora ragazzini - in lunghe camminate su per la collina torinese, conversando di tante cose. E fu allora che qualcosa di te potei scoprire o intuire: la dirittura, lo sdegno per la volgarità e la violenza del regime fascista, l’amore per la montagna, il senso religioso della vita e, anche quasi a bilanciare questi aspetti seri del tuo carattere, il gusto delle battute spiritose e dei taglienti giudizi, e la prontezza nel cogliere i lati meschini e ridicoli del prossimo.
Com'era giusto, questo giudice intelligente, probo e coltissimo (di una cultura non soltanto giuridica), salì ai gradi più alti della magistratura. Poi raggiunti i limiti d’età, si ritrasse nell'ombra, quasi in punta di piedi, come si addiceva alla sua natura umbratile e schiva: Rivà ch'a sìa la sèira / vorrìa na còsa sola: / andemne an santa pas (arrivata la sera / vorrei una cosa sola / andarmene in santa pace). Lo vidi sempre meno, per lo più ai funerali di qualche anziano giudice o avvocato. Finii per perderlo di vista (ed è un rimorso che mi punge): anche perché, poco dopo la sua andata in pensione, io stesso avevo lasciato la magistratura, per andare a insegnare storia all'università.
Oggi le sue poesie (molte delle quali mi sembrano assai belle, e credo che non se ne potesse dir meglio di quanto ha fatto Maurizio Pallante) mi rivelano le pieghe più nascoste del giudice Alvazzi, dell’uomo. Una volta ebbi a scrivere che il giudizio, civile o penale, continuato per anni, spesso finisce per logorare il magistrato; o perché lo spegne nella piatta e meccanica applicazione della legge, o perché, all’opposto, lo consuma nella strenua, oscura lotta di ogni giorno per affermare, contro il rigore della legge, le ragioni più profonde dell’umana pietà e, in questa lotta, lo riempie di una virile mestizia che lo allontana dalla gioia del vivere. Alvazzi sentì sempre in sé il tormento di questa lotta; e più profondamente me ne rendo conto dopo aver letto questi versi. Mi sono tornate alla mente le parole che egli pronunciò il 4 maggio 1956, nell’aula della prima sezione civile della Corte d’appello di Torino, per dare, a nome di tutti noi, l’ultimo saluto a Giuseppe Manfredini, amico suo e mio, che tre giorni prima si era suicidato per l’atroce (e infondato) dubbio di aver sbagliato sentenza, condannando un innocente. Così Alvazzi chiuse il suo discorso: « Addio, amico, ammainata ormai è la bandiera a mezz’asta del Palazzo della Corte, non dai nostri cuori la tua figura. Noi ti amavamo. Ci scaldava la tua bontà. Irreducibile, costituzionale bontà, che nessun’ombra velava, nessun improvviso corruccio sminuiva, men che meno quello che noi talora provocavamo per gioco; e a te, per un istante, si faceva di porpora l’ampio viso che neppure le lenti riuscivano a fare severo... A uno di noi, proprio alla vigilia della tua ultima ansia di giudice, avevi rivolto parole che non furono credute. “Tra le pagine aride - dicesti - mi si smarrisce la mente. Che non sia l’ora, per me, di aver laggiù il mio pezzo di terra?”. Oggi tu l’hai, amico, il tuo pezzo di terra. Sei nella grande calma. Per noi, invece, più stanchi, riprende inquieta la vita ».
Questa tristezza del giudice — che può persino sfociare nel dramma, nella tragedia, e spesso, anche se a tanto non giunge, si converte in un intimo logorio delle sue fibre vitali — più volte ha sollecitato la penna degli scrittori. Pensiamo a talune bellissime pagine dell'Elogio dei giudici di Piero Calamandrei, o al Diario di un giudice di Dante Troisi. La ritrovo, questa tristezza, questo rovello, questa lima sorda, in non poche poesie di Alvazzi: anche se spesso nascosta da una scanzonata ironia, e, alla fine, dominata e vinta da una gagliarda gioia di vivere. Si noti l’insistenza con cui ricorrono, in questi versi, certi aspetti tragici, grotteschi, perfino macabri della realtà umana che quotidianamente assilla il giudice (e basti un esempio: la frequenza di allucinati casi di assassinio, o di suicidio); o altri motivi non meno dolenti e raccapriccianti; la legge che spesso serve a coprire le malefatte dei birbanti; l’infinito squallore di certe miserie morali, la disumanità di una rigida, formale applicazione dei codici; il giudice che si rassetta indifferente la toga, mentre la donna, colpita dalla lettura della sentenza, scoppia in lacrime; e, su tutto, la terribile assurdità di uomini che giudicano altri uomini, ed è la cosa pì drò/a, pìjò/a (più strana, più folle) fra tutte.
Direi che in Alvazzi nasceva proprio di qui, da questo “tarlo” che dentro lo rodeva, a tutti nascosto (Na càmola veja / am guerna, më speta, / am rùsia segreta, / am fora 'l servel /… La càmola, drenta, / / j’e’ gnun ca la ved [1]), quell'impulso di liberarsene, di riscattarsene, in una gioiosa contemplazione del mondo, quell’ansia di cielo, quella sete di poesia.
Ho letto, di anno in anno, tante confidenze e memorie di magistrati. Ma non mi era mai accaduto di imbattermi in pagine come queste. Esse ci fanno sentire, nel modo più semplice e limpido, che il mestiere del giudice — quel mestiere che è stato anche mio per trent’anni —, se praticato con la purezza, l’impegno assoluto, il tormento intimo di Alvazzi, può aiutare a vincere le meschinità, le angosce, i dubbi del vivere quotidiano, a sentire il valore religioso della nostra esistenza su questa terra, la bellezza delle cose che ci circondano, la necessità di spendersi per qualcosa che trascende i nostri piccoli egoismi individuali. Queste verità il nostro autore le accenna appena, con pudore, e soprattutto con umiltà.
Era, per istinto, un uomo orgoglioso, di un orgoglio perfino risentito. Ma, come leggiamo in una di queste poesie, il padre suo, un generoso medico all’antica, lo aveva col suo esempio guarito per sempre dal male della superbia.
[1] Scrive Paolo Borgna nella voce dedicata ad Alessandro Galante Garrone: "suoi maestri, nella professione di giudice, furono Alessio Alvazzi Delfrate e Domenico Riccardo Peretti Griva: uomini che appartenevano alla solida tradizione dei magistrati liberali piemontesi, entrati nell'ordine giudiziario nell'epoca giolittiana e che avevano resistito alle invadenze del regime mussoliniano, ancorandosi al principio di stretta legalità e alle tradizioni della civiltà italiana", in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Enciclopedia Italiana, 2015 link.
[2] Un vecchio tarlo mi sorveglia, mi aspetta, mi rode in segreto, mi fora il cervello… Il tarlo, dentro, nessuno lo vede.
Ricordo
di Alessandro Galante Garrone, in Alessio Alvazzi Del Frate, Veij such dël Piemont. Poesie in dialetto piemontese, Torino, Forma, 1983, pp. 5-7.
Nel 1915 Alessio Alvazzi Del Frate aveva cominciato come uditore la sua carriera giudiziaria nel severo palazzo dei via Corte d’Appello di Torino, la Curia Maxima. Poco meno di vent'anni dopo sarebbe toccato a me, impacciato uditore, di varcare la soglia di quel palazzo. E la buona sorte volle che, per un primo dirozzamento, io fossi affidato dal presidente del tribunale al giudice Alvazzi, che aveva da poco passato i quarant'anni. Da lui imparai a meditare e a scrivere le prime sentenze civili[1].
È passato mezzo secolo da quel nostro primo incontro, nell'autunno del 1933: un incontro decisivo, per la mia formazione di giudice. Fui subito colpito dal meraviglioso scrupolo con cui studiava ogni causa - grande o piccola che fosse - dallo splendore delle sue sentenze. Qualche vecchio avvocato certamente ancora ricorda quel suo scrivere elegante, saporoso, quell'incontenibile scintillio di arguzia che prorompeva dal suo stile così lontano dal solito gergo forense, quell’adorabile chiarezza e semplicità. (Molti anni più tardi mi sarei imbattuto in un detto di Salvemini: «La chiarezza ‘e l’integrità morale della mente »). Fu, per me, una lezione non più dimenticata, della quale vorrei non essere stato del tutto indegno, nella mia lunga fatica di estensore di sentenze, e poi di scrittore (e insegnante) di cose storiche.
Dopo quei nove mesi di uditorato passati al suo fianco, altri preziosi incontri ed esperienze concorsero a fare di me un magistrato: l’assiduo contatto con eccellenti avvocati di Mondovì, Cuneo, Torino, l’affettuosa amicizia con giudici di me più anziani, come Domenico Riccardo Peretti Griva, Umberto Balestreri (grande alpinista tragicamente morto in montagna, compagno di ardite ascensioni con Alvazzi), Giuseppe Manfredini, tanti altri. Ma fu lui prima e più di tutti, che nel guidare i primi passi del novizio intimidito lo avviò per una strada non facile, da lui intrapresa molti anni prima con una serietà quasi religiosa, temperata da una delicata bontà d’animo e quasi per pudore nascosta da un velo d’ironia. Di questo suo essermi stato maestro, egli più tardi mi parlava con affettuoso compiacimento.
Caro Alvazzi, come ricordo il tuo affetto di fratello maggiore, e quasi di giovane padre, quando mi portavi con i tuoi figlioli - allora ragazzini - in lunghe camminate su per la collina torinese, conversando di tante cose. E fu allora che qualcosa di te potei scoprire o intuire: la dirittura, lo sdegno per la volgarità e la violenza del regime fascista, l’amore per la montagna, il senso religioso della vita e, anche quasi a bilanciare questi aspetti seri del tuo carattere, il gusto delle battute spiritose e dei taglienti giudizi, e la prontezza nel cogliere i lati meschini e ridicoli del prossimo.
Com'era giusto, questo giudice intelligente, probo e coltissimo (di una cultura non soltanto giuridica), salì ai gradi più alti della magistratura. Poi raggiunti i limiti d’età, si ritrasse nell'ombra, quasi in punta di piedi, come si addiceva alla sua natura umbratile e schiva: Rivà ch'a sìa la sèira / vorrìa na còsa sola: / andemne an santa pas (arrivata la sera / vorrei una cosa sola / andarmene in santa pace). Lo vidi sempre meno, per lo più ai funerali di qualche anziano giudice o avvocato. Finii per perderlo di vista (ed è un rimorso che mi punge): anche perché, poco dopo la sua andata in pensione, io stesso avevo lasciato la magistratura, per andare a insegnare storia all'università.
Oggi le sue poesie (molte delle quali mi sembrano assai belle, e credo che non se ne potesse dir meglio di quanto ha fatto Maurizio Pallante) mi rivelano le pieghe più nascoste del giudice Alvazzi, dell’uomo. Una volta ebbi a scrivere che il giudizio, civile o penale, continuato per anni, spesso finisce per logorare il magistrato; o perché lo spegne nella piatta e meccanica applicazione della legge, o perché, all’opposto, lo consuma nella strenua, oscura lotta di ogni giorno per affermare, contro il rigore della legge, le ragioni più profonde dell’umana pietà e, in questa lotta, lo riempie di una virile mestizia che lo allontana dalla gioia del vivere. Alvazzi sentì sempre in sé il tormento di questa lotta; e più profondamente me ne rendo conto dopo aver letto questi versi. Mi sono tornate alla mente le parole che egli pronunciò il 4 maggio 1956, nell’aula della prima sezione civile della Corte d’appello di Torino, per dare, a nome di tutti noi, l’ultimo saluto a Giuseppe Manfredini, amico suo e mio, che tre giorni prima si era suicidato per l’atroce (e infondato) dubbio di aver sbagliato sentenza, condannando un innocente. Così Alvazzi chiuse il suo discorso: « Addio, amico, ammainata ormai è la bandiera a mezz’asta del Palazzo della Corte, non dai nostri cuori la tua figura. Noi ti amavamo. Ci scaldava la tua bontà. Irreducibile, costituzionale bontà, che nessun’ombra velava, nessun improvviso corruccio sminuiva, men che meno quello che noi talora provocavamo per gioco; e a te, per un istante, si faceva di porpora l’ampio viso che neppure le lenti riuscivano a fare severo... A uno di noi, proprio alla vigilia della tua ultima ansia di giudice, avevi rivolto parole che non furono credute. “Tra le pagine aride - dicesti - mi si smarrisce la mente. Che non sia l’ora, per me, di aver laggiù il mio pezzo di terra?”. Oggi tu l’hai, amico, il tuo pezzo di terra. Sei nella grande calma. Per noi, invece, più stanchi, riprende inquieta la vita ».
Questa tristezza del giudice — che può persino sfociare nel dramma, nella tragedia, e spesso, anche se a tanto non giunge, si converte in un intimo logorio delle sue fibre vitali — più volte ha sollecitato la penna degli scrittori. Pensiamo a talune bellissime pagine dell'Elogio dei giudici di Piero Calamandrei, o al Diario di un giudice di Dante Troisi. La ritrovo, questa tristezza, questo rovello, questa lima sorda, in non poche poesie di Alvazzi: anche se spesso nascosta da una scanzonata ironia, e, alla fine, dominata e vinta da una gagliarda gioia di vivere. Si noti l’insistenza con cui ricorrono, in questi versi, certi aspetti tragici, grotteschi, perfino macabri della realtà umana che quotidianamente assilla il giudice (e basti un esempio: la frequenza di allucinati casi di assassinio, o di suicidio); o altri motivi non meno dolenti e raccapriccianti; la legge che spesso serve a coprire le malefatte dei birbanti; l’infinito squallore di certe miserie morali, la disumanità di una rigida, formale applicazione dei codici; il giudice che si rassetta indifferente la toga, mentre la donna, colpita dalla lettura della sentenza, scoppia in lacrime; e, su tutto, la terribile assurdità di uomini che giudicano altri uomini, ed è la cosa pì drò/a, pìjò/a (più strana, più folle) fra tutte.
Direi che in Alvazzi nasceva proprio di qui, da questo “tarlo” che dentro lo rodeva, a tutti nascosto (Na càmola veja / am guerna, më speta, / am rùsia segreta, / am fora 'l servel /… La càmola, drenta, / / j’e’ gnun ca la ved [1]), quell'impulso di liberarsene, di riscattarsene, in una gioiosa contemplazione del mondo, quell’ansia di cielo, quella sete di poesia.
Ho letto, di anno in anno, tante confidenze e memorie di magistrati. Ma non mi era mai accaduto di imbattermi in pagine come queste. Esse ci fanno sentire, nel modo più semplice e limpido, che il mestiere del giudice — quel mestiere che è stato anche mio per trent’anni —, se praticato con la purezza, l’impegno assoluto, il tormento intimo di Alvazzi, può aiutare a vincere le meschinità, le angosce, i dubbi del vivere quotidiano, a sentire il valore religioso della nostra esistenza su questa terra, la bellezza delle cose che ci circondano, la necessità di spendersi per qualcosa che trascende i nostri piccoli egoismi individuali. Queste verità il nostro autore le accenna appena, con pudore, e soprattutto con umiltà.
Era, per istinto, un uomo orgoglioso, di un orgoglio perfino risentito. Ma, come leggiamo in una di queste poesie, il padre suo, un generoso medico all’antica, lo aveva col suo esempio guarito per sempre dal male della superbia.
[1] Scrive Paolo Borgna nella voce dedicata ad Alessandro Galante Garrone: "suoi maestri, nella professione di giudice, furono Alessio Alvazzi Delfrate e Domenico Riccardo Peretti Griva: uomini che appartenevano alla solida tradizione dei magistrati liberali piemontesi, entrati nell'ordine giudiziario nell'epoca giolittiana e che avevano resistito alle invadenze del regime mussoliniano, ancorandosi al principio di stretta legalità e alle tradizioni della civiltà italiana", in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Enciclopedia Italiana, 2015 link.
[2] Un vecchio tarlo mi sorveglia, mi aspetta, mi rode in segreto, mi fora il cervello… Il tarlo, dentro, nessuno lo vede.